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175. UNA DONNA SAUDITA CHE HA OSATO GUIDARE

È più difficile affrontare governi oppressivi o società oppressive? A questa domanda risponde Manal al-Sharif, una donna saudita che ha “osato” guidare, sfidando le convenzioni locali. “Una società non è libera se le donne di quella società non sono libere” dice. Nel video qui sotto, ci racconta la sua esperienza.

 

 

Trascrizione del video:

Permettetemi di iniziare rivolgendo a tutti una domanda. Sapete che in tutto il mondo i popoli combattono per la loro libertà, per i loro diritti. Alcuni lottano contro governi oppressivi, altri combattono società oppressive. Quale lotta pensate sia più dura? Permettetemi di rispondere a questa domanda nei prossimi minuti. Lasciate che vi racconti di due anni fa. Per mio figlio Aboody era l’ora di andare a letto. All’epoca aveva cinque anni. Dopo aver terminato i suoi rituali della buona notte, mi guardò e mi chiese: “Mamma, siamo delle cattive persone?” Ne fui scioccata. “Perché dici una cosa del genere, Aboody?” Quello stesso giorno, avevo notato alcuni lividi sulla sua faccia tornando da scuola. Non aveva voluto dirmi cos’era accaduto. Ma ora era pronto per dirmelo. “Due ragazzi mi hanno colpito oggi a scuola. Mi hanno detto: “Abbiamo visto tua mamma su Facebook. Tu e tua madre dovreste andare in prigione”. Non ho mai avuto paura di parlare con Aboody. Sono sempre stata orgogliosa dei miei successi. Ma gli occhi di mio figlio in quel momento richiedevano da me verità, quando tutto venne fuori.

Sono una donna saudita che è stata arrestata per aver guidato un’auto in una nazione in cui non è previsto che le donne guidino. Solo per avermi dato le chiavi della sua auto, mio fratello è stato in carcere due volte, e lo hanno talmente assillato che ha dovuto lasciare il suo lavoro da geologo, e abbandonare il paese con sua moglie e il loro bimbo di due anni. Mio padre ha dovuto sedere ad un sermone del venerdì e ascoltare l’imam che condannava le donne che guidano definendole delle prostitute davanti a una folla di fedeli, alcuni dei quali amici di famiglia e di mio padre. Ho subito una campagna di diffamazione organizzata nei media locali, insieme a falsi pettegolezzi condivisi in riunioni familiari, per le strade e a scuola. Tutto ciò mi ha ferita. Era chiaro che quei ragazzi non volevano essere maleducati con mio figlio. Erano semplicemente influenzati dagli adulti che stavano loro intorno. E non ero io il problema, non era una punizione per aver preso il volante e aver guidato qualche chilometro. Era una punizione per aver osato sfidare le regole della società.

Ma la mia storia va oltre questo mio momento di verità. Permettetemi di descrivere brevemente la mia storia. Era il maggio del 2011 e mi stavo lamentando con un collega di lavoro delle seccature che dovevo affrontare per trovare un passaggio per tornare a casa, nonostante io abbia un’auto e una patente di guida internazionale. Per quanto ne so, in Arabia Saudita le donne si sono sempre lamentate di questo divieto, ma sono passati 20 anni da quando qualcuno ha cercato di fare qualcosa a riguardo, un’intera generazione fa. Il collega mi sbatté in faccia la verità. “Non c’è nessuna legge che ti impedisce di guidare”. Mi documentai, aveva ragione. Non c’era una legge vigente in Arabia Saudita. Era solo una consuetudine e una tradizione inscritta nelle rigide fatwa religiose e imposta alle donne. Quella scoperta accese l’idea del 17 giugno, di incoraggiare donne a mettersi al volante e guidare.

Dopo poche settimane, cominciammo a ricevere insulti del tipo “Vi violenteranno se guidate le auto”. Una donna coraggiosa di nome Najila Hariri, della città saudita di Jeddah, guidò un’auto e ne diede l’annuncio ma non registrò un video. Avevamo bisogno di prove. Allora guidai io. E pubblicai un video su YouTube. E con mia sorpresa, venne visto centinaia di migliaia di volte quel primo giorno. Cosa accadde dopo, naturalmente? Cominciai a ricevere minacce di morte, di stupro, perché smettessi questa campagna. Le autorità saudite rimasero molto tranquille. Ci faceva rabbrividire.

Portavo avanti la campagna con altre donne saudite e persino con degli attivisti maschi.Volevamo sapere come avrebbero reagito le autorità nel giorno fissato, il 17 giugno, quando le donne sarebbero uscite a guidare. Allora questa volta chiesi a mio fratello di venire con me e guidare accanto a una macchina della polizia. Fu tutto molto veloce. Venimmo arrestati, firmammo un impegno a non guidare di nuovo e fummo rilasciati. Arrestati di nuovo, mio fratello scontò un giorno di detenzione e io fui mandata in prigione. Non ero sicura del perché ero lì, perché non non mi accusarono di niente durante l’interrogatorio. Ma di una cosa ero sicura, della mia innocenza. Non avevo violato la legge, e avevo tenuto il mio abaya – è un mantello nero che indossiamo in Arabia Saudita prima di uscire di casa – e le mie compagne di cella continuavano a dirmi di toglierlo, ma ero così sicura della mia innocenza, che continuavo a dire “No, tanto esco oggi”. Fuori dalla prigione, tutto il paese era in uno stato di frenesia. Alcuni mi attaccavano violentemente, altri mi sostenevano addirittura raccogliendo firme per una petizione da inviare al re per farmi liberare. Fui rilasciata dopo nove giorni.

Arriva il 17 giugno. Le strade erano piene di auto della polizia, e auto della polizia religiose, ma qualche coraggiosa donna saudita contravvenne al divieto e quel giorno guidò. Nessuna fu arrestata. Avevamo spezzato il tabù. (Applausi) Credo che oggi tutti sappiano che non possiamo guidare, o che le donne non sono autorizzate a guidare in Arabia Saudita, ma forse pochi sanno perché. Permettetemi di aiutarvi a rispondere a questa domanda.

C’è stata una ricerca ufficiale presentata al Consiglio della Shūra – è il consiglio consultivo incaricato dal re saudita – ed è stato fatto da un professore locale, un professore universitario. Sostiene che è stato fatto sulla base di uno studio dell’UNESCO. E la ricerca sostiene che la percentuale di stupri, adulteri, figli illegittimi, abusi di droga, prostituzione in paesi dove le donne guidano è più alto di quello dei paesi dove le donne non guidano. (Risate) Lo so, sono rimasta scioccata. Ho detto: “Siamo l’ultimo paese del mondo in cui le donne non guidano”. Se guardate la mappa del mondo, rimangono solo due paesi: l’Arabia Saudita e l’altra società è il resto del mondo. Abbiamo iniziato un hashtag su Twitter per prendere in giro la ricerca, e ha fatto i titoli di tutti i giornali del mondo. [BBC News: ‘Fine della verginità’ se le donne guidano, gli ecclesiastici sauditi mettono in guardia] Solo allora ci siamo resi conto che è così stimolante prendere in giro l’oppressore. Gli toglie la sua arma più importante: la paura.

Il sistema è basato su usi e tradizioni ultra-conservativi che trattano le donne come inferiori e che hanno bisogno di una guardia che le protegga, quindi devono chiedere il permesso a queste guardie, che sia oralmente o in forma scritta, tutta la vita. Siamo minorenni fino al giorno in cui moriamo. E diventa peggio se racchiuso in fatwa religiose basate su una interpretazione sbagliata della Shariʿah o delle regole religiose. Quel che è peggio, è quando vengono codificate come leggi del sistema, quando le donne stesse credono alla loro inferiorità, e combattono anche chi cerca di mettere queste regole in discussione.

Per me, non si trattava solo degli attacchi che dovevo affrontare. Si trattava di vivere due percezioni completamente diverse della mia personalità – la cattiva nel mio paese natale, e l’eroe all’esterno. Vi racconto due storie degli ultimi due anni. Una di quando ero in prigione.Sono abbastanza sicura che quando ero in carcere, tutti vedevano i titoli dei giornali internazionali una cosa del genere durante i miei nove giorni di carcere. Ma nel mio paese, l’immagine era completamente diversa. Era più di questo tipo: “Manal al-Sharif affronta le accuse di disturbo dell’ordine pubblico e incitamento alla guida delle donne”. Lo so. “Manal al-Sharif si ritira dalla campagna”. E va bene. Questo è il mio preferito. “Manal al-Sharif crolla e confessa: ‘Le forze straniere mi hanno istigato”. (Risate) E va avanti, si parla anche di processarmi e fustigarmi in pubblico. È un’immagine completamente diversa. L’anno scorso mi è stato chiesto di fare un intervento al Freedom Forum di Oslo. Ero circondata da amore e supporto della gente intorno a me, e mi guardavano come un’ispirazione. Nello stesso tempo, sono tornata nel mio paese, odiavano talmente tanto quell’intervento da chiamarlo tradimento dell’Arabia Saudita e del popolo saudita, e hanno anche cominciato un hashtag #OsloTraitor su Twitter. Sono stati scritti 10 000 tweet con quell’hashtag, mentre per l’hashtag opposto, #OsloHero, erano una manciata. Hanno anche iniziato un sondaggio. Hanno risposto 13 000 votanti a questo sondaggio per verificare se mi considerassero traditrice o meno dopo quell’intervento. Novanta per cento ha detto sì, che ero una traditrice. Sono due percezioni completamente diverse della mia personalità.

Dal canto mio, sono una fiera donna saudita, e amo il mio paese, e faccio questo perché amo il mio paese. Perché credo che una società non è libera se le donne di quella società non sono libere. (Applausi) Grazie. (Applausi) Grazie, grazie, grazie, grazie. (Applausi) Grazie. Ma si impara da queste cose che accadono. Ho imparato a esserci sempre. Prima cosa, sono uscita di prigione,certo, dopo aver fatto una doccia, sono andata online, ho aperto un conto Twitter e la mia pagina Facebook, e sono sempre stata molto rispettosa nei confronti di chi esprime la propria opinione. Ascoltavo quello che dicevano e non mi difendevo solo con le parole. Agivo. Quando dicevano che avrei dovuto ritirarmi dalla campagna, ho citato in giudizio per la prima volta il consiglio direttivo della polizia stradale per non avermi rilasciato una patente. Ci sono anche molte persone – tanti sostenitori, 3000 persone che hanno firmato la petizione per rilasciarmi.

Abbiamo spedito al Consiglio della Shūra la petizione per la rimozione del divieto alle donne saudite e 3500 cittadini ci hanno creduto e hanno firmato la petizione. Erano persone come questa, vi mostro solo qualche esempio, persone fantastiche, che credono nei diritti delle donne in Arabia Saudita, e si impegnano, affrontano anche molto odio nel parlare ed esprimere il loro punto di vista.

L’Arabia Saudita oggi fa piccoli passi verso il miglioramento dei diritti delle donne. Nel Consiglio della Shūra incaricato dal re, da decreto reale del Re Abdullah,l’anno scorso c’erano 30 donne, circa il 20 per cento: 20 per cento del Consiglio. (Applausi) Nello stesso periodo, finalmente, il Consiglio, dopo aver respinto la nostra petizione a favore delle donne alla guida per quattro volte, l’hanno finalmente accettata lo scorso febbraio. (Applausi)

Dopo essere stata spedita in carcere o condannata alla flagellazione, o spedita in tribunale, il portavoce della polizia stradale ha detto, che avrebbe emesso solo multe per infrazioni alle donne al volante. Il Grand Mufti, a capo delle istituzioni religiose in Arabia Saudita, ha detto che non si raccomanda alle donne di guidare. Era ‘haram’, proibito, dal precedente Grand Mufti.

Per me non si tratta solo di piccoli passi. Sono le donne stesse. Un’amica una volta mi ha chiesto: “Quando pensi che le donne potranno guidare?” Le ho detto, “Solo quando le donne smetteranno di chiedere ‘Quando?’ e agiranno per farlo accadere“. 

Non si tratta solo del sistema, Siamo noi donne a dover guidare la nostra vita. Non ho idea, veramente, di come io sia diventata un’attivista. E non lo so adesso. Tutto quello che so e di cui sono sicura, è che in futuro quando qualcuno chiederà della mia storia, dirò, “Sono fiera di essere tra quelle donne che hanno tolto il divieto, hanno combattuto il divieto, e celebrato la libertà di tutti”.

La domanda con cui ho iniziato, se sia più difficile affrontare governi oppressivi o società oppressive… Spero che troviate la risposta nel mio discorso. Grazie a tutti. (Applausi) Grazie. (Applausi) Grazie. (Applausi)

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1 commento su “175. UNA DONNA SAUDITA CHE HA OSATO GUIDARE”

  1. Manal non ha guidato solo un’auto ma è come se avesse messo le sue convinzioni, i suoi sentimenti, i bisogni e suoi desideri dentro un’ arca di salvezza per tante donne, trasformando il “dover essere” in “fare per essere”. Quante idee estranee a noi ospitiamo nella nostra testa. Esse sono il frutto di un sistema che cresce e moltiplica gli individui di cui la società ha bisogno influenzandone il cervello. Spesso le donne non possono “guidare” la propria vita anche qui in Italia e vicino a me. Per fortuna la nostra soggettività riflette certe interpretazioni del mondo usurpandone il significato e il senso comune attribuito dalla collettività in quel momento. Il risultato qual’è? Che tale soggettività diventa pubblica e universale e di conseguenza meno paralizzante. Una follia che salva.
    Grazie

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